Roma 6 Dicembre 1983, muore Umberto Terracini

terracini-160x160A 32 anni dalla morte di Umberto Terracini, padre costituente e uomo politico a noi molto vicino (non  scorderemo mai la sua presenza all’assemblea all’ITS Armellini in  occasione del ferimento mortale di Piero Bruno http://www.lalottacontinua.it/giornale-archivio/LC1_1975_12_20_0001.pdf ) crediamo sia molto  attuale ricordarlo riportando di seguito il discorso da lui tenuto  in Parlamento il 22 Dicembre 1947,in occasione dell’approvazione della  Costituzione.
Un discorso lungo,che contiene tutta la passione e la schiettezza che ha  fatto di Terracini il comunista poco ortodosso che è stato. Ricordiamo infatti l’espusione dal PCI per la sua condanna (dalla reclusione di Ventotene), del Patto Molotov-Ribbentrop del 1939;

“Nella primavera 1942 una risoluzione del partito condanna le posizioni di Terracini e nel gennaio 1943 il direttivo ne delibera l’espulsione. Terracini si oppone alla decisione presa nei suoi confronti con un lungo e argomentato ricorso, che non trova risposta. Nell’agosto 1943, con lo scioglimento della colonia di confino, Terracini ritorna in libertà e, privato dell’appoggio del partito, è costretto a riparare in un campo profughi in Svizzera. Prova ripetutamente a ristabilire i contatti con i centri dirigenti del PCI ed in particolare con Togliatti, senza riuscirvi. Deciso a portare il proprio contributo alla lotta in corso, passa clandestinamente la frontiera e si unisce alle formazioni partigiane che occupano l’Ossola.Nel dicembre 1944 gli viene comunicata la sua riammissione nel partito e nell’aprile 1945 la segreteria lo invita a raggiungere Roma”

Il 27 dicembre 1947 viene promulgata dal capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola la Costituzione della Repubblica Italiana. Al suo fianco, Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio, Umberto Terracini, presidente dellaIl 27 dicembre 1947 viene promulgata dal capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola la Costituzione della Repubblica Italiana. Al suo fianco, Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio, Umberto Terracini, presidente della Costituente, e Giuseppe Grassi, guardasigilli. Costituente, e Giuseppe Grassi, guardasigilli.

Il 27 dicembre 1947 viene promulgata dal capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola la Costituzione della Repubblica Italiana. Al suo fianco, Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio, Umberto Terracini, presidente dellaIl 27 dicembre 1947 viene promulgata dal capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola la Costituzione della Repubblica Italiana. Al suo fianco, Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio, Umberto Terracini, presidente della Costituente, e Giuseppe Grassi, guardasigilli. Costituente, e Giuseppe Grassi, guardasigilli.

Onorevoli colleghi,
è con un senso di nuova profonda commozione che ho pronunciato or ora  la formula abituale con la quale, da questo seggio, nei mesi passati  ho, cento e cento volte, annunciato all’Assemblea il risultato delle  sue votazioni. Di tutte queste, delle più combattute e delle più  tranquille, di quelle che videro riuniti in un solo consenso tutti i settori e delle altre in cui il margine di maggioranza oscillò  sull’unità; di tutti questi atti di volontà che, giorno per giorno,  vennero svolgendosi, con un legame non sempre immediatamente  conseguente – in riflesso di situazioni mutevoli non solo nell’aula,  ma anche nel Paese – quest’ultimo ha riassunto il significato e gli  intenti, affermandoli definitivamente e senza eccezione come legge  fondamentale di tutto il popolo italiano.

Ed io credo di potere avvertire attorno a noi, oggi, di questo popolo l’interesse fervido ed il plauso consapevole e soddisfatto. Si può ora dirlo; vi è stato un momento, dopo i primi accesi entusiasmi, nutriti  forse di attese non commisurate alle condizioni storicamente maturate  ed in loro reazione, vi è stato un momento nel quale come una parete  di indifferenza minacciava di levarsi fra questo consesso e le masse  popolari. E uomini e gruppi, già ricacciati al margine della nostra  società nazionale dalla prorompente libertà – detriti del regime  crollato o torbidi avventurieri di ogni congiuntura – alacremente, e  forse godendo troppa impunità, si erano dati ad approfondire il  distacco, ricoprendo di contumelie, di calunnie, di accuse e di  sospetti questo istituto, emblema e cuore della restaurata democrazia.

Onorevoli deputati, è col nostro lavoro, intenso e ordinato, è con lo  spettacolo ad ogni giorno da noi offertogli della nostra metodica,  instancabile applicazione al compito affidatoci, che noi ci siamo in  fine conquistati la simpatia e la fiducia del popolo italiano. Il quale, nelle sue distrette come nelle sue gioie, sempre più è venuto  volgendosi all’Assemblea costituente come a naturale delegata ed  interprete e realizzatrice del suo pensiero e delle sue aspirazioni. E  le centinaia, le migliaia di messaggi di protesta, di approvazione, di  denuncia, di richieste giunti alla presidenza nel corso dei diciotto  mesi di vita della Costituente, testimoniano del crescente spontaneo  affermarsi della sua autorità, come Assemblea rappresentativa. E’ questo un prezioso retaggio morale che noi lasciamo alle future Camere legislative della Repubblica.

Ho parlato di lavoro instancabile. Ne fanno fede le 347 sedute a cui ci convocammo, delle quali 170 esclusivamente costituzionali; i 1663  emendamenti che furono presentati sui 140 articoli del progetto di  Costituzione, dei quali 292 approvati, 314 respinti, 1057 ritirati o  assorbiti; i 1090 interventi in discussione da parte di 275 oratori; i  44 appelli nominali ed i 109 scrutini segreti; i 40 ordini del giorno
votati; gli 828 schemi di provvedimenti legislativi trasmessi dal  governo all’esame delle Commissioni permanenti ed i 61 disegni di legge deferiti all’Assemblea; le 23 mozioni presentate, delle quali 7  svolte; le 166 interpellanze di cui 22 discusse; le 1409  interrogazioni, 492 delle quali trattate in seduta, più le 2161 con  domanda di risposta scritta, che furono soddisfatte per oltre tre
quarti dai rispettivi dicasteri.

Lavoro instancabile, sta bene. Ma anche lavoro completo? Alla stregua  del mandato conferitoci dalla nostra legge istitutiva, sì. Noi consegniamo oggi, a chi ci elesse il 2 giugno, la Costituzione; noi abbiamo assolto il compito amarissimo di dare avallo ai patti di pace  che hanno chiuso ufficialmente l’ultimo tragico e rovinoso capitolo  del ventennio di umiliazioni e di colpe; e, con le leggi elettorali,  stiamo apprestando il ponte di passaggio, da questo periodo ancora  anormale, ad una normalità di reggimento politico del Paese nel quale  competa ad ogni organo costituzionale il compito che gli è proprio ed  esclusivo: di fare le leggi, al Parlamento; al governo di applicarle;  ed alla magistratura di controllarne la retta osservanza.

Ma, con la Costituzione, questa Assemblea ha inserito nella struttura  della stato repubblicano altri organi, ignoti al passato sistema, suggeriti a noi dall’esperienza dolorosa o dettati dalla evoluzione  della vita sociale ed economica del Paese. Tale la Corte delle garanzie costituzionali, sancita a difesa dei diritti e delle libertà  fondamentali, ma non a preclusione di progressi ulteriori del popolo  italiano verso una sempre maggiore dignità dell’uomo, del cittadino,  del lavoratore. Tale il Consiglio nazionale della economia e del  lavoro, che rimuovendo gli ostacoli dovuti a incomprensione o ad  ignoranza delle altrui esigenze, eviterà le battaglie non giustificate, disperditrici di preziose energie, dando alle altre,  necessarie invece ed irreprimibili in ogni corpo sociale che abbia  vita fervida e sana, consapevolezza di intenti e idoneità di mezzi.

Ma forse, sì, non taciamolo, onorevoli colleghi, molta parte del  popolo italiano avrebbe voluto dall’Assemblea costituente  qualcos’altro ancora. I più miseri, coloro che conoscono la vana  attesa estenuante di un lavoro in cui prodigare le proprie forze  creatrici e da cui trarre i mezzi di vita; coloro che, avendo lavorato  per un’intera vita, fatti inabili dall’età, dalla fatica, dalle  privazioni, ancora inutilmente aspettano dalla solidarietà nazionale  una modesta garanzia contro il bisogno; coloro che frustano i loro  giorni in una fatica senza prospettiva, chiudendo ad ogni sera un  bilancio senza residui, utensili pensanti e dotati d’anima di un  qualche gelido mostruoso apparato meccanico, o forze brute di lavoro  su terre estranee e perciò stesso ostili: essi si attendevano tutti  che l’Assemblea esaudisse le loro ardenti aspirazioni, memori come  erano di parole proclamate e rieccheggiate.

Noi lo sappiamo, oggi, che ciò avrebbe superato le nostre possibilità. Ma noi sappiamo di avere posto, nella Costituzione, altre parole che impegnano inderogabilmente la Repubblica a non ignorare più quelle  attese, ad applicarsi risolutamente all’apprestamento degli strumenti  giuridici atti a soddisfarle.
La Costituzione postula, senza equivoci, le riforme che il popolo italiano, in composta fiducia, rivendica. Mancare all’impegno sarebbe nello stesso tempo violare la Costituzione e compromettere, forse
definitivamente, l’avvenire della Nazione italiana.

Onorevoli colleghi, ieri sera, quasi a suggello simbolico apposto alla Carta costituzionale, voi avete votato un ordine del giorno col quale raccomandate e sollecitate dal presidente della Repubblica un atto  generoso di clemenza e di perdono. Già al suo primo sorgere, la Repubblica volle stendere le sue mani indulgenti e volgere il suo  sguardo benigno e sereno verso tanti, che pure non avevano esitato a  straziare la Patria italiana, ad allearsi con i suoi nemici, a  colpirne i figli più eroici. Il rinnovato gesto di amistà, del quale vi siete fatti promotori, vuole oggi esprimere lo spirito che ha  informato i nostri lavori, in ognuno di noi, su qualunque banco si sedesse, a qualunque ideologia ci si richiami.

L’Assemblea ha pensato e redatto la Costituzione come un solenne patto  di amicizia e fraternità di tutto il popolo italiano, cui essa lo affida perchè se ne faccia custode severo e disciplinato realizzatore.

E noi stessi, onorevoli deputati, colleghi cari e fedeli di lunghe e degne fatiche, conclusa la nostra maggiore opera, dopo avere fatta la  legge, diveniamone i più fedeli e rigidi servitori. Cittadini fra i cittadini, sia pure per breve tempo, traduciamo nelle nostre azioni,  le maggiori e le più modeste, quegli ideali che, interpretando il voto  delle larghe masse popolari e lavoratrici, abbiamo voluto incidere  nella legge fondamentale della Repubblica.

Con voi m’inchino reverente alla memoria di quelli che, cadendo nella  lotta contro il fascismo e contro i tedeschi, pagarono per tutto il  popolo italiano il tragico e generoso prezzo di sangue per la nostra  libertà e per la nostra indipendenza; con voi inneggio ai tempi nuovi  cui, col nostro voto, abbiamo aperto la strada per un loro legittimo  affermarsi. Viva la Repubblica democratica italiana, libera, pacifica  ed indipendente!